L’arte di perdere

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L’arte di perdere s’impara presto, diranno a Naïma verso la fine della storia. E non è un disastro, anzi, è la condizione per procedere. Ma è un’arte che non sono riusciti ad apprendere né suo padre Hamid, né suo nonno Alì le cui radici sono rimaste là, all’Algeria francese o, peggio, alla fuga in Francia nel dopoguerra e alla detenzione nei campi eufemisticamente definiti temporanei. Padre e nonno che, su quel tempo diversamente vissuto, sono rimasti, per tutta la durata dei suoi trent’anni, silenziosi e sconfitti.

Mentre scrivevo la tesi (su Luigi Nono, tramontavano gli anni ‘70) scoprii Djamila Boupacha. A questa combattente della guerra d’indipendenza algerina erano stati dedicati dei versi da uno scrittore spagnolo Jesús López Pacheco, versi che Nono aveva inserito in un suo lavoro intitolato: Sul ponte di Hiroshima: “Ha de venir un día, distinto. / Ha de venir la luz, creedme lo que os digo”. Testo musicale composto al principio degli anni ’60, prima del film di Pontecorvo. Più o meno in quegli stessi anni, sarà Fausto Amodei a cantare (in seno ai Cantacronache) una canzone di Michele Straniero: Canzone del popolo algerino, non una cosa tra le sue più note, e che, certamente, affonda le sue radici nell’ascolto de Il disertore di Boris Vian: “Chi ti ha mandato, soldato, col fucile alla mano? / chi ti ha mandato, ragazzo, a ferire lontano?”. La canzone di Vian (scritta lo stesso giorno della sconfitta francese a Dien Bien Phu) venne incisa e interpretata, prima d’essere censurata ed esclusa dai programmi radiofonici francesi, dal cantante francese d’origine algerina Marcel Mouloudji. Negli anni a seguire Mouloudji subirà una sorta di ostracismo, ma non dimenticherà né le sue origini né le guerre francesi d’oltremare, sarà ancora lui, infatti, nel 1971 ad interpretare due canzoni di Mikis Theodorakis scritte per la colonna sonora del film Biribi (non è Algeria, siamo a Tunisi, ma c’entra sempre l’esercito francese; ma anche tutti gli eserciti, in verità).

Al di là del Disertore, poi tradotto e cantato da tanti (Tenco è forse il primo) soprattutto come canzone antimilitarista, in Italia la questione algerina rimane abbastanza sottotraccia. Molto più avanti, nel ’78, c’è una canzone giovanile di Giangilberto Monti intitolata Algeri, ma l’autore non è ancora al meglio della sua produzione e in precedenza c’era stata una bella interpretazione di Gian Maria Volontè in un film intitolato L’attentato (1972), nel quale l’attore vestiva i panni del leader terzomondista di origine marocchina Ben Barka, che con l’Algeria indipendente del presidente Ben Bella ebbe buoni rapporti.

E poi c’è Camus, naturalmente, sì: Il primo uomo, Lo straniero. Non conosco i saggi.

Ho detto sottotraccia, ma in verità non è così: non sono così vecchio da aver dimenticato nomi e testi che forse all’epoca non avevo collegato.

Scoprii Franz Fanon (medico psichiatra e attivo collaboratore e portavoce del FLN algerino) solo grazie ad un film dei fratelli Taviani, pellicola che non ho mai più avuto occasione di rivedere, ma di cui ricordo alcune sequenze bellissime: un pranzo sotto un pergolato, un dialogo in riva al mare col sottofondo di un brano della Settima di Beethoven e poi un litigio fra il protagonista e Gian Carlo Pajetta nel corso di una manifestazione internazionalista (… a meno che non mi confonda con I sovversivi… Tant’è che, ora mi sovviene, I dannati della terra non è dei Taviani ma di Valentino Orsini. All’epoca collaboravano).

Comunque: Franz Fanon lo scoprii sicuramente dopo il film, lo pubblicava Einaudi, quasi certamente su “pressione” di Giovanni Pirelli. Quest’ultimo lo conoscevo appena poco di più per via delle Lettere dei condannati a morte della Resistenza e, soprattutto, per via della vicenda Nuovo Canzoniere italiano / Dischi del sole / Istituto Ernesto De Martino / edizioni del Gallo ecc. Per Einaudi Pirelli aveva anche pubblicato le Lettere della rivoluzione algerina e fu fra i finanziatori e organizzatori dei gruppi di francesi che contestavano l’intervento armato in Algeria. Su You Tube si trova un film (1970) di Gianni Serra intitolato La rete Jeanson che illustra non soltanto il momento storico, ma indaga soprattutto sulle singole soggettività dei ribelli e contestatori dell’ordine costituito (come allora si diceva).

Di Gianni Serra conoscevo soltanto La ragazza di via Millelire, una storia tutta torinese dei miei anni giovanili, ma l’ho ritrovato grazie ad un’altra rarità, scoperta seguendo le tracce di Mikis Theodorakis. Si tratta di un film: Uno dei tre (1973) ambientato in Italia fra gli esuli dalla Grecia dei colonnelli. Film introvabile, l’unica cosa che si può rintracciare è la sceneggiatura (non ebbe grande distribuzione).

Ed è ancora l’esilio, un altro esilio che ci riporta finalmente a questo bellissimo romanzo. Una storia di tre generazioni diversamente segnate dalla guerra d’Algeria, dai suoi traumi e dai silenzi indicibili che spesso accompagnano chi da quel conflitto è uscito perdente, indipendentemente dall’esito politico-militare consegnato alla storia.

LO SCRITTORE

Quando i contadini ritrovarono l’ingegnere, in un’alba d’agosto, faccia in giù nel fossato erboso che costeggiava la statale, corsero verso la villa e la prima che incontrarono fu la mamma diciottenne di Michail Kiev. La quale raccontò poi al figlio, in un’estate ormai molto lontana dai fatti, che l’aveva subito riconosciuto dalla giacca che tante volte gli aveva stirato e rassettato, ché quello era il suo compito: bambinaia e tuttofare, con la sola saltuaria distrazione di una pedalata in bicicletta giù a Viareggio o a Camaiore.

L’omicidio passò alla storia familiare come opera dei Tedeschi, e così è ricordato negli annali, anche se testimonianze orali ormai sbiadite certificavano, in quel plotone di SS in ritirata verso Nord, la presenza di civili con accento lucchese, o magari in camicia nera.

Era d’estate, canterà Endrigo vent’anni dopo: “e tu eri con me”.

Invece, a quel tempo, pur villeggiando entrambi a poche ore di macchina dal luogo dell’omicidio, lo scrittore e la sua futura moglie, pressoché coetanei, vestivano entrambi alla marinara ma non si conoscevano ancora. I due nuclei familiari non si erano mai frequentati, ma in seno ad entrambi si confidava che la giovane età e l’agiatezza economica, seppur di diversa consistenza, delle rispettive famiglie avrebbero concorso a tenere all’oscuro, sia di quel delitto che di altri omicidi e rappresaglie, entrambi i figli.

Michail Kiev, che ho incontrato l’altra mattina al bar mentre ordinava un caffè tenendo a portata d’orecchio la liason in corso fra la riccioluta pittrice ed il suo amante (gallerista o insegnante, chissà), afferma, invece, che non fu così, le precauzioni non bastarono.

– Tanto per cominciare l’ingegnere ucciso era ben conosciuto dalla famiglia dello scrittore. Anche se in seguito trovò un altro impiego, autonomo, aveva cominciato a lavorare proprio per loro, dopo la laurea; e quindi, non dico a caldo, ma qualche giorno dopo se ne sarà certo parlato un poco, a bassa voce come si usa in quelle case, ma al bambino silenzioso e attento, come pare fosse lo scrittore sin da giovane, di sicuro non saranno sfuggiti i particolari.

Quanto a lei – continua Michail – non ha vissuto certo miglior sorte, anzi. Il nonno lo conosceva appena ma il fragore della raffica che lo uccise proprio davanti al cancello della villa dove rientrava per il pranzo, le sarà rimasto nella mente per chissà quanto tempo.

Era il momento della “resa dei conti”, come diceva la canzone; qualche mese prima della “Festa d’aprile” proseguo io. Ma poi? Quand’è che si incontrarono davvero?

Michail gira lo sguardo tutt’attorno, insofferente alle interruzioni, gonfia d’aria i polmoni poi torna ad appoggiarsi al tavolino: non sono il suo biografo, sillaba piano.

Comunque, se ti va di andare a sfogliare un po’ di carta vecchia – aggiunge conciliante – Gente, Oggi, Tempo …, quella roba là, ci troverai le foto del matrimonio. Fu una cosa grossa. Non dico come quello di Fabiola e Baldovino, ma i tempi erano quelli e le mise degli invitati pure. Smoking, tight, ampi cappelli leggeri a larga tesa per le signore, persino qualche militare in divisa; aviazione, certamente.

Sogghigno. – Non ti facevo così sensibile all’aristocrazia.

Il suo sguardo punta, senza vederla, la tazzina vuota, ma la voce è quella di chi rilegge un paragrafo di Storia.

– Su da noi dopo la guerra si svuotarono i paesi, emigrarono in tanti: Svizzera, Belgio, Lussemburgo. Gli uomini in miniera o in cantiere, le donne cuoche o cameriere in casa privata. Mia madre fu a Bruxelles e poi a Berna, ragion per cui quando, anni dopo, la televisione trasmise le immagini del matrimonio … ma era Fabiola o era Paola Ruffo di Calabria, la stessa cui Adamo aveva dedicato una canzone? Boh, non mi ricordo più; so che si sposarono a Bruxelles e mia madre si emozionò nel rivedere le immagini di quella cattedrale.

Era quell’estate lì, comunque, quella di Endrigo.

Qualche chilometro più a sud, ma la strada è sempre l’Aurelia, Dino Risi aveva appena girato la scena conclusiva de Il sorpasso: l’Italia stava accelerando, anche se Enrico Mattei non ce l’aveva fatta, e in piazza Statuto, a Torino, sassi e bastoni contrastavano la Celere.

Si erano conosciuti in Versilia. Mentre lei, disertando qualche esercitazione col violino, si abbronzava sugli scogli, lo ammirava di lontano in barca a vela, una sorta di Ulisse alto, riccioluto e biondo con uno sguardo -scuserai la mia solita citazione musicale- dritto e aperto sul futuro, ma con entrambi i piedi ben piantati nel solido passato di famiglia; la sera, invece, si incontravano alla Bussola dove si esibivano il gruppo di Carosone o quello di Marino Marini. Fu lui ad invitarla per la prima volta. Suonano il jazz due amici miei di Torino – le disse – dilettanti ma bravi. Divennero entrambi giornalisti e almeno uno di certo lo conosci, mi dice Michail. Lo si vede ancora in Tv.

Quando, verso la fine dell’estate, fu lei a chiedergli se voleva accompagnarla a Venezia dov’era in programma una replica di Intolleranza di Luigi Nono, la storia incominciò. Non so quanto lui abbia gradito, ancor prima della musica, i testi di quei comunisti per quanto poco ortodossi: Majakovskij, Brecht … Certo è che tornarono innamorati. E lei doppiamente: anche della musica di Nono, col quale entrò in corrispondenza e di cui non perse mai, in seguito, una prima esecuzione.

– Ma lui che tipo di scrittore è?

Non risponde Michail. Nel giro di un attimo abbassa le palpebre, solleva le sopracciglia, tamburella sul tavolo. Non è scortesia, seppure è evidente che vorrebbe uscir fuori a fumare nel sole, ma poi torna docile: uno come tanti di quelli che si pubblicano oggi. Dopo aver letto una dozzina di questi libri hai trascorso piacevolmente del tempo, forse ti si è accesa una piccola curiosità nuova, ma non vedi l’ora di tornare a rileggere uno di quelli che davvero ti aprì una finestra sul mondo.

– E quand’è che ha cominciato a scrivere?

– Se offri un altro caffè finisco la storia. Credo abbia avuto da sempre il tempo per farlo. Lui è stato un tipo estroso, fino ad un certo momento della sua vita anche brillante, immagino. Non gli si addiceva quel clima, che dissero da caserma, nel quale furono avvolte per più d’un ventennio sia la città che l’azienda dove lavorava. Non entrò mai nelle dinamiche strette del potere, pur facendone necessariamente parte, come sai. Non era un culo di pietra. Lui arrivava a prodotto finito, scriveva due righe di presentazione e poi lo portava in giro assieme al suo sorriso, consapevole che alla concorrenza devi sempre offrire uno spiraglio e agli avversari anche una via di fuga. Quindi tempo per scrivere ne aveva, anche se cominciò davvero solo quando perse il sorriso.

E sorride sornione anche Michail, ben sapendo che quell’ultima frase lascia aperta una porta che, almeno per oggi, nessuno valicherà.

– E comunque se hai altre domande puoi rivolgerle direttamente a lui, guarda, sta attraversando la strada al braccio della moglie musicista.

L’uomo che spalanca la porta del bar, cedendo con antica cavalleria il passo alla consorte, è un vecchio marinaio un po’ malfermo sulle gambe che non ha più nulla dell’Ulisse riccioluto, bianco per antico pelo, come direbbe il poeta, sembra quasi il padre di sua moglie, ancora piacente, vivace e sorridente come un tempo.

– Eh, la pandemia ci ha tenuto lontani, dice lei alla barista mentre chiede gentilmente un caffè.

Lo scrittore attende al tavolino sorreggendosi una tempia con la mano e senza neppure più il conforto abituale dei quotidiani.

– Ogni mattina arrivava qui e ordinava un caffellatte che sorbiva, anche un po’ rumorosamente, con la voracità d’un bambino mentre compulsava freneticamente, matita alla mano, La stampa e L’osservatore romano. Finiremo così anche noi, afferma Michail.

P.S.

Quando l’autore di questa breve storia era adolescente firmò Michail Kiev le sue prime cose scritte. Nessuno sa il perché. Vi è chi ipotizza che ciò sia avvenuto per via della lettura delle avventure di Michele Strogoff, o magari in seguito alla visione in tarda serata di un qualche film russo in bianco e nero sulla Rai. Non si sa.

Forse quel cognome sarebbe rimasto perennemente nell’oblio, se non vivessimo tempi così terribili.